di Alessando Lanzani [email protected]
Lo squat è un esercizio particolare. Dal punto di vista biomeccanico è caratterizzato dall’applicazione di un carico diretto sulla colonna e questo, naturalmente, lo rende insidioso per la possibilità di eventi traumatici sia acuti che cronici. Se un agonista o un atleta avanzato lo vogliono inserire nella tabella di allenamento, devono conoscerne i dettagli di esecuzione, e ancora più consapevole deve essere l’istruttore che si prende la responsabilità di proporre lo squat ai suoi assistiti. È un esercizio poliarticolare: il movimento è realizzato dal gioco di più articolazioni. Il peso, in questi esercizi, si muove lungo una linea retta (per approssimazione) e non lungo un arco di circonferenza come negli esercizi monoarticolari (ad esempio nelle flessioni del gomito per l’allenamento dei bicipiti brachiali). Lo spostamento è la risultante della composizione degli archi di circonferenza delle singole articolazioni coinvolte nel movimento. Osserviamo il soggetto di profilo mentre esegue l’esercizio: se l’esercizio è eseguito correttamente, il bilanciere appoggiato sulle spalle si muove in alto e in basso con un percorso rettilineo. Le articolazioni coinvolte sono:
- caviglia
- ginocchio
- anca
- articolazioni intervertebrali lombari e dorsali della colonna.
Possiamo scomporre il lavoro eseguito durante una ripetizione di squat nei diversi movimenti monoarticolari che lo compongono; per ogni articolazione interessata dobbiamo considerare l’escursione angolare e la posizione della leva nello spazio rispetto alla forza di gravità. In questo modo possiamo analizzare la quantità di lavoro di sollevamento che ogni articolazione fornisce per realizzare l’intero movimento di sollevamento.
LA CAVIGLIA
Il complesso articolare della caviglia nella posizione eretta di partenza forma un angolo di 90° tra l’asse longitudinale del piede e la gamba. Durante l’accosciata si realizza una flessione dorsale; i piedi sono il punto fisso, pertanto le ginocchia scorreranno in avanti lungo l’arco di circonferenza descritto dalla gamba. In questo settore il sollevamento che si realizza è modesto. Da questo possiamo avere la conferma dall’esperienza comune: lo squat non è un esercizio di elezione per i polpacci; questa muscolatura realizza la flessione plantare del piede e, dato che in questo esercizio il piede è fisso, determina un ritorno della tibia alla posizione iniziale. Nello squat la caviglia è fondamentale non tanto per la quantità di lavoro (modesta) che la leva biologica realizza, ma perché la mobilità in flessione dorsale è determinante per una corretta distribuzione del lavoro nelle leve superiori. Infatti, se la caviglia ha una scarsa flessione dorsale ne risulterà una correzione della postura al fine di mantenere l’equilibrio: il tronco sarà flesso in avanti e parte del sollevamento sarà realizzato dalla muscolatura paravertebrale.
IL GINOCCHIO
Nella posizione di partenza il ginocchio è esteso, il femore è verticale. Il femore ruota dalla posizione di partenza con un’escursione di 120°; in questo caso si realizza un cospicuo sollevamento, soprattutto quando il femore raggiunge una posizione all’incirca orizzontale: abbiamo quindi la conferma di come lo squat sia un esercizio specifico per i quadricipiti. Il femore è l’osso più lungo dell’apparato locomotore per cui, indipendentemente dalle differenze staturali, la flesso - estensione del femore provoca il massimo di sollevamento in ogni soggetto, di conseguenza il massimo lavoro per il quadricipite. A questo punto occorre osservare le condizioni di equilibrio durante l’esecuzione dell’esercizio. Sulla testa femorale si scarica il peso della parte superiore del corpo, compreso l’eventuale bilanciere. Immaginiamo che il movimento articolare avvenga solo a livello del ginocchio: se il tronco è verticale il baricentro si proietta posteriormente alla base di appoggio dei piedi. Venendo a mancare la condizione necessaria per la conservazione dell’equilibrio, o il soggetto corregge la postura facendo rientrare il baricentro all’interno della base di appoggio, oppure cade. In realtà, ha due possibilità per compensare l’equilibrio riportando in avanti il baricentro: la prima è aumentare la flessione dorsale della caviglia, proiettando così più avanti il ginocchio e da qui tutti i segmenti superiori; la seconda è flettere il tronco in avanti, spostando così il baricentro della parte superiore del corpo anteriormente alle teste femorali.
Nel primo caso si realizza la soluzione migliore per l’apparato locomotore, perché la colonna rimane eretta. In questa alternativa il limite alla compensazione è dato dalla flessibilità della caviglia: non tutti i soggetti hanno la stessa escursione di flessione dorsale ed è abbastanza frequente trovare degli atleti che ne hanno pochissimi gradi. Questo limite articolare impedisce la possibilità di compensare autonomamente: occorre apporre un rialzo sotto ai talloni. La posizione di partenza viene ruotata di alcuni gradi ed è possibile orientare la tibia in avanti. Nel secondo caso la flessione della colonna in avanti non è corretta perché in questa condizione si costringe la colonna vertebrale a un sovraccarico che non si verifica mantenendola in posizione eretta.
L’ANCA
Questa articolazione passa da una posizione di estensione nella posizione eretta, a una flessione di circa 120°. In realtà, il suo sollevamento avviene più per un intervento diretto della muscolatura estensoria propria dell’articolazione: i glutei, per il sollevamento indiretto mediato dai quadricipiti. La funzione motoria dei glutei si realizza soprattutto negli ultimi gradi di estensione, quando la risalita è quasi ultimata. Questi muscoli, insieme agli ischio crurali, contribuiscono a estendere il bacino sulla coscia. Normalmente il loro lavoro è modesto, a meno che con una particolare concentrazione non si ricerchi una contrazione dei glutei nelle fasi finali dell’esercizio che sottrarrà una parte di lavoro ai quadricipiti. Nella posizione eretta, con appoggio bipede, il sollevamento del tronco dopo un’accosciata avviene prevalentemente a carico dell’apparato estensore del ginocchio: il quadricipite. Non bisogna trascurare l’effetto dei muscoli posteriori della coscia che prendono origine sull’ischio: il capo lungo del bicipite femorale, il semi membranoso e il semi tendinoso che hanno una funzione di estensione dell’ articolazione coxo – femorale.
IL TRATTO LOMBO-DORSALE DELLA COLONNA
Se l’esercizio viene eseguito correttamente, o perché il soggetto ha una buona flessione dorsale della caviglia, o perché compensa il difetto di flessione con un adeguato rialzo a livello della caviglia, allora la colonna lungo tutte le fasi dell’esercizio rimane eretta in posizione pressoché verticale e in questo modo la muscolatura propria paravertebrale non compie nessun lavoro attivo durante l’esercizio. Al contrario, una flessione in avanti della colonna al fine di mantenere il baricentro all’interno della base di appoggio comporta un ulteriore abbassamento del baricentro, che scorrerà lungo l’arco di circonferenza descritto dal tronco dalla posizione 180° alla posizione 140° - 120°. In questo caso sarà la muscolatura propria della colonna che, nella fase positiva dell’esercizio, dovrà sollevare il peso del bilanciere con un ulteriore aggravio in compressione delle strutture portanti (i corpi e i dischi intervertebrali).
CONCLUSIONI
Questa analisi biomeccanica ci permette di sconsigliare l’applicazione delle teorie di allenamento che prevedono il ricorso a serie, ripetizioni massimali o ultra massimali nella pratica dello squat.
Alcuni campioni o allenatori consigliano combinazioni di serie e ripetizioni che ricercano il completo esaurimento muscolare del distretto allenato. L’atleta combatte con la fatica muscolare nelle ultime ripetizioni forzate, tanto che istintivamente cerca di sottrarre una parte di lavoro ai quadricipiti ormai esausti, flettendo in avanti la schiena: in questo modo toccherà alla muscolatura paravertebrale sollevare parzialmente il carico liberando di una parte di lavoro i quadricipiti. Questo tentativo di compensazione, sebbene sia efficace nel supportare i quadricipiti, è pericoloso perché la contrazione dei paravertebrali aumenta la compressione sulla colonna vertebrale a livelli di rischio, quando l’atleta, proprio a causa della fatica, è in scarse condizioni di coordinazione motoria e al limite delle sua capacità massimali. Non è un caso che gli infortuni avvengano più spesso proprio in queste fasi estreme del training. Se la filosofia di queste tecniche d’allenamento è quella di raggiungere il massimo risultato nel minore tempo possibile, va segnalato che un infortunio, oltre che essere un fatto negativo per le sue conseguenze immediate ed eventuali complicazioni, rappresenta sicuramente una fase di arresto nella preparazione e una grossa, talvolta irrecuperabile, perdita di tempo.