di Alessandro Lanzani [email protected]
Le dislipidemie sono forse l’aspetto più caratteristico ed emblematico della sindrome metabolica. Sono essenzialmente un fattore di rischio asintomatico che provoca un deterioramento cronico degenerativo a livello dei vasi: l’aterosclerosi. Con la dislipidemia si comprende meglio quel concetto di “usura e deterioramento progressivo” tipico delle patologie croniche. Facendo una banalizzazione di tipo idraulico, potremmo dire che, a livello dei vasi – tubi circolatori:
- l’iperglicemia genera “corrosione”
- l’ipertensione genera “usura”
- le dislipidemie “incrostazione”.
L’aterosclerosi è una situazione patologica in cui la parete dei vasi risulta ispessita per la deposizione di grassi. Il concetto non è molto lontano da quello di incrostazioni calcaree che portano all’occlusione dei tubi di scarico di lavatrici e lavastoviglie. La patologia è asintomatica e questo la rende ancora più subdola e pericolosa, perché procede senza che il paziente se ne accorga attraverso il dolore e il disagio. Le manifestazioni cliniche del danno sono legate al restringimento dei vasi colpiti, con conseguente ridotto flusso di sangue e minore apporto di ossigeno. Il ridotto trasporto di ossigeno prende il nome di ischemia, una patologia che può portare anche alla morte delle cellule a valle del blocco. Le sedi maggiormente colpite sono principalmente le coronarie, l’aorta, i vasi del circolo cerebrale (ictus cerebrale), i vasi del rene e degli arti inferiori, l’apparato gastroenterico. Associato al restringimento del calibro utile delle arterie, abbiamo anche la formazione di trombi ed emboli. Altri aspetti contribuiscono alla formazione della placca aterosclerotica e sono legati a uno stato infiammatorio in cui giocano un ruolo il fibrinogeno, le piastrine, i macrofagi e i linfociti. Dal punto di vista sociale le iperlipidemie sono state, in questi ultimi 30 anni, al centro dell’attenzione sanitaria per il forte aumento delle patologie cardiovascolari correlate a questo eccesso metabolico (sedentarismo e soprappeso). Soprattutto negli Stati Uniti si è verificato per primo il fenomeno del sedentarismo tecnologico e dell’alimentazione da allevamento industriale, con un fortissimo aumento delle obesità e di tutti gli aspetti negativi legati alla sindrome metabolica. Non è un caso che negli Stati Uniti siano stati fondati i primi enti e istituti preposti al contenimento di questo fenomeno. Sono stati prodotti documenti importantissimi, come il NCEP, il National Cholesterol Education Program, che hanno avuto un’influenza anche negli altri paesi occidentali.
PILLOLE DORATE
Non si pensi ingenuamente che la scienza progredisca in modo lineare verso soluzioni positive e razionali: l’industria della salute è il primo mercato al mondo e negli Stati Uniti muove ogni anno da 500 a 1000 miliardi di dollari. Come volumi è all’incirca equivalente all’industria della guerra: uno strano modo di intendere la vita e la morte è al centro delle attenzioni dell’umanità. I farmaci antiperlipemici per la riduzione del rischio cardiovascolare rappresentano una percentuale cospicua di questi soldi. È ovvio che sulle scelte sanitarie si concentrino interessi enormi: pensiamo alle battaglie legali miliardarie per l’estensione della brevettazione dei farmaci, o per l’introduzione di farmaci nei sistemi sanitari nazionali. Alcuni di questi farmaci non apportano vantaggi certi, ma possono sventrare in pochi anni qualsiasi bilancio sanitario. Il livello dello scontro è titanico, ma la battaglia è asimmetrica: da una parte c’è l’energia economica di Big Pharma (le case farmaceutiche multinazionali) che ormai, tranne qualche rara eccezione, posseggono, controllano o influenzano tutta la filiera della produzione, informazione e divulgazione scientifica; dall’altra parte c’è la buona volontà dei singoli, qualche associazione e alcuni istituti pubblici. In mezzo, la consapevolezza dei ministri della salute dei paesi occidentali ed emergenti di stare seduti su una poltrona che scotta, sotto cui è già accesa la miccia di un’arma di distruzione di massa: la spesa sanitaria. Non è una battuta: i continui sforamenti del costo dei farmaci e della sanità cosiddetta “preventiva” sono in grado di distruggere qualsiasi modello sanitario e anche i bilanci di altre protezioni sociali come la previdenza. Anche i più alti istituti sentono il fiato sul collo di Big Pharma, tanto che lo stesso National Cholesterol Education Program in certi passaggi sembra esitante: fornisce una documentazione precisa e puntuale sull’assoluta efficacia dell’attività fisica nella riduzione del rischio, sull’efficacia multifattoriale contro ipertensione e obesità, sul fatto che è l’unica variabile modificabile, sull’assenza di rischi (intensità adeguate, cioè basse per le nostre vecchie abitudini, ma adeguate per le esigenze dei metabolici, a meno che non si voglia praticare la follia dell’allenamento prestativo dell’anziano metabolico), effetti collaterali e controindicazioni nulle. Di fatto, smonta pezzo a pezzo, capitolo per capitolo, il primato dell’efficacia farmacologica rispetto al primato dei sani stili di vita, ma poi, quando tira le conclusioni di politica sanitaria, con una piroetta finale riabilita il farmaco tradizionale delegando le scelte strategiche (fino al quel punto evidenti) all’opinione soggettiva del medico. Per poi ribadire che il medico, prescrivendo attività fisica, potrà ridurre l’impatto farmacologico: allora funziona! Per noi è un documento di fondamentale importanza, perché sancisce l’efficacia e la sicurezza dell’attività fisica in una posizione di piena legittimazione e accreditamento istituzionale.
GLOSSARIO
Ci sono cinque classi di lipoproteine nel sangue:
1. chilomicroni (misurazione del colesterolo)
2. very low-density lipoproteins (VLDL)
3. intermediate-density lipoproteins (IDL)
4. low-density lipoproteins (LDL)
5. high-density lipoproteins (HDL)
La loro funzione è quella di trasporto dall’apparato digerente alle cellule, o per l’immagazzinamento come riserva energetica negli adipociti o per utilizzo immediato nelle altre cellule. La dimensione e la densità ne permettono una classificazione utile a scopi di ricerca e diagnostici. Il termine iperlipidemia significa valori elevati nel sangue di lipoproteine; ipercolesterolemia si riferisce a un aumento dei valori di colesterolo e ipertrigliceridemia a un aumento dei valori di triglicerdidi. Delle cinque classi appena descritte, la numero 5, ovvero le proteine ad alta intensità, è l’unica che ha una funzione protettiva a livello dei vasi, per cui sono auspicabili livelli alti. Il metabolismo dei lipidi assolve a funzioni essenziali a livello del tessuto cerebrale, delle membrane cellulari, e non deve essere considerato come una negatività assoluta: come sempre accade, quello che conta è il limite tra troppo e troppo poco. Il rischio di una complicazione cardiovascolare acuta, come l’ictus e l’infarto, è direttamente proporzionale all’aumento dei livelli di lipidi nel sangue e in correlazione con gli altri indici di rischio. Nel caso delle HDL vale il contrario, perché queste lipoproteine hanno una funzione protettiva per i vasi contro la formazione delle placche ateromatose. La multifattorialità dei fattori di rischio, sia positivi che negativi, è la chiave di lettura della questione.
ALCUNE INFORMAZIONI SUI FARMACI CONTRO LE IPERLIPIDEMIE
Le statine in commercio in Italia (atorvastatina, fluvastatina, lovastatina, pravastatina, rosuvastatina, simvastatina) sono autorizzate per il trattamento delle ipercolesterolemie familiari, dell’ipercolesterolemia primaria e della dislipidemia mista, a integrazione della dieta, quando la risposta alla dieta e ad altri trattamenti non farmacologici (es. aumento dell’attività fisica e riduzione del peso corporeo se indicato) risulta inadeguata. La loro funzione è quella di ridurre i livelli di lipidi nel sangue contribuendo alla diminuzione dell’aterosclerosi. In questi anni si parla molto di risparmio della spesa sanitaria nazionale: le informazioni che seguono sono finalizzate all’acquisizione di una certa consapevolezza da parte dell’operatore metabolico rispetto alle dimensioni della spesa, al risparmio possibile e al fatto che tutto questo potrebbe avvenire con un miglioramento della qualità della vita di milioni di persone. Analizzando i dati del Centro regionale di farmacovigilanza Lombardia, abbiamo individuato tre fasce di costo annuo per il consumo delle statine in Italia.
Una terapia preventiva di fascia rossa ha un costo di almeno 75 euro al mese per persona; per la fascia intermedia siamo intorno a 50 euro e 30-35 euro per quella verde. Se questi dati vi impressionano facciamo adesso un discorso ancora più interessante. Quante persone bisogna trattare per salvarne una? Non tutti quelli che vengono “prevenuti” avrebbero avuto l’infarto. Per stabilire se un farmaco preventivo funziona, bisogna verificare cosa succede a un gruppo di controllo che non prende il farmaco e valutare poi la differenza. In genere, le case farmaceutiche parlano di riduzione della probabilità di ammalarsi, ma è meglio riferirsi a numeri e valori assoluti. Perché? Facciamo un esempio. 12.000 persone assumono un farmaco “preventivo” e dopo un anno ne muoiono 3. Altri 12.000 prendono una pillola inerte e dopo un anno ne muoiono 6. Possiamo dire che il farmaco riduce l’incidenza della malattia del 50%. Detto così (e così lo riferiscono le case farmaceutiche) suona benissimo. Infatti si chiama RRR ovvero Riduzione Relativa del Rischio; ma la valutazione del Rischio Assoluto funziona in un altro modo. Sono state salvate 3 vite su 12.000 e la prevenzione del rischio è di 0,04%: la riduzione del rischio si manifesta in una persona su 4000. Si può quindi chiamare “Numero di Pazienti da Trattare” NNT (number needed to treat), il numero di persone che devono essere trattate per avere la certezza statistica di aver evitato almeno in una persona l’evento patologico.
Vediamo di applicare questo concetto. In uno studio più volte menzionato in letteratura del Wooscops (West of Scotland Coronary Orevention Study Group) dal titolo “Prevention of coronary art disease with pravastatina in men with cholesterolemia”, pubblicato sul New England Journal of Medicine (rivista scientifica tra le più accreditate) si afferma che il numero necessario di pazienti da trattare per salvarne uno per un anno di trattamento è di 544 persone nel caso di un gruppo di persone trattato per prevenzione primaria. Prevenzione primaria significa che il soggetto, fino ad allora, era sano per le patologie a rischio. Lo studio era stato fatto con la Pravastatina da 40 mg. Quindi, moltiplicando il costo annuale della pravastatina da 40mg (valori pubblicati dal Centro regionale di farmaco vigilanza Lombardia), vale a dire 902 euro, per il numero di persone anno da trattare per salvarne una, (sono 544) raggiungiamo una cifra di 490.688 euro. Ovviamente, nel caso di prevenzione secondaria, cioè a infarto avvenuto, il numero delle persone da trattare per salvarne una, cala a circa 100 pari a una cifra di circa 100.000 euro.
Alcune considerazioni: questa valutazione sui costi non è un’invenzione personale, ma uno strumento internazionale di politica sanitaria economica che si chiama “end point” - punto finale. Il punto però è che non finisce qui; infatti nei costi non sono considerati i costi di monitoraggio per verificare gli effetti indesiderati e dannosi dei farmaci stessi, ovvero visite mediche ed esami di laboratorio. Effetti collaterali e indesiderati che si verificano con delle percentuali di diverse unità e che spostano altrettanto in alto i costi: in guerra, si chiamerebbero danni collaterali da fuoco amico. Infine, non si considera ancora che il valore aggiunto dell’attività motoria come prevenzione sociale ha un effetto positivo su tutti coloro che lo praticano e non solo su quelli a cui non viene l’ictus. Tutti godono di un aumento della qualità della vita e non solo dell’ipotetico aumento della quantità di vita. Nel 2008 il mercato farmaceutico totale, comprensivo della prescrizione territoriale e di quella erogata attraverso le strutture pubbliche (ASL, Aziende Ospedaliere, Policlinici Universitari ecc.) è stato pari a circa 24,4 miliardi di euro, di cui il 75% rimborsato dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN). In media, per ogni cittadino italiano, la spesa per farmaci è stata di circa 410 euro con un periodo di trattamento di 537 giorni. Le statine, ovvero i farmaci per la prevenzione farmacologia cardiovascolare, sono di recente introduzione e in pochi anni hanno contribuito in buona parte a spostare la spesa dai 15 miliardi del 2002-2003 ai 24 di oggi: un impatto di circa 10 miliardi di euro, pari a una cospicua manovra finanziaria. Che si rinnova ogni anno. Si legge nel Rapporto AIFA 2009: “I farmaci dell’apparato cardiovascolare rappresentano la principale categoria terapeutica sia in termini di DDD (dose di mantenimento della terapia) per 1000 abitanti die (48% del totale) che di spesa pro capite (37%), seguiti da quelli dell’apparato gastrointestinale e metabolismo con rispettivamente il 13% ed il 15%”. L’aumento nella prescrizione dei farmaci cardiovascolari rispetto all’anno 2008 è pari al +3,2%, e “in questa classe di farmaci le statine continuano a mantenere il primo posto per spesa, con un incremento dell’8,7%, a fronte di un aumento delle DDD del 13,2%”. Un miliardo di euro solo per le statine, un valore che si è raddoppiato in cinque anni. Se da una parte è difficile pensare che un modello così sia ancora a lungo sostenibile, pensiamo a quanto sia grande il margine di risparmio su questa spesa generando qualità della vita con attività motoria preventiva. Consideriamo che in Italia sono circa 2 milioni le persone trattate con statine. Non ho visto in questi anni persone inviate dai medici a fare attività motoria; eppure per anni la tabella 13 del S.S.N per la prescrivibilità delle statine segnala che la prescrizione di statine, per essere rimborsabile, deve essere integrata con altri presidi preventivi: ”L’uso dei farmaci ipolipemizzanti deve essere continuativo e non occasionale. Lo stesso, comunque, va inserito in un contesto più generale di controllo degli stili di vita (alimentazione, fumo, attività fisica ecc.)”. La riduzione dei dosaggi e in alcuni casi anche la sospensione del trattamento farmacologico dovuta al rientro nei parametri grazie alla pratica di attività motoria, dieta e non fumo, possono pesare dal 20 al 30% della riduzione spesa farmacologica e un risparmio molto ma molto più cospicuo per quanto riguarda la riduzione delle ospedalizzazioni, dei monitoraggi e delle terapie da effetti indesiderati dai farmaci. Peraltro saranno a breve indispensabili delle scelte politiche e informative adeguate a introdurre con la dovuta risolutezza il farmaco “attività motoria” che è l’unica variabile modificabile nel sistema: sicura, senza controindicazioni e dai costi irrisori rispetto a queste cifre.
ATTIVITÀ FISICA E DISLIPIDEMIE
Ora vale la pena di riprendere la definizione di sindrome metabolica dal punto di vista motorio: sedentarismo e malnutrizione da eccesso (soprappeso e obesità). Associando questa definizione ai dati sul rischio (multifattorialità e variabili modificabili: attività fisica e controllo del peso), risulta chiaro che il nostro obiettivo primario non è quello di cadere in ipertecnicismo su formule allenanti che fanno perdere di vista il vero obiettivo, ovvero sostituire tempo sedentario con tempo motorio, rendere questo tempo motorio non pericoloso per rischi cardiovascolari e non microtraumatico per l’apparato locomotore. Se pratichiamo intensità basse per l’allenamento (“basse” per nostre incrostazioni culturali) e adeguate per i diversi livelli di sedentarismo (“adeguate” per il fitness metabolico), non carichiamo di rischi acuti il sedentario (che peraltro necessiterebbe di un monitoraggio medico tanto più rigido e severo quanto più alte le intensità proposte), e realizziamo una leva efficace per la riduzione delle uniche due variabili modificabili: attività fisica e peso. È evidente che l’attenzione si sposta sull’inserimento di un tempo motorio gradevole, sicuro, efficace, e perché questo si realizzi, oltre che la scelta degli esercizi, occorre una formazione e un’informazione sulla consapevolezza del soggetto: cioè una relazione. Non chiederti troppo cosa devi far fare al metabolico, chiediti piuttosto come devi essere tu per aiutarlo a diventare da metabolico a motorio.
IL TEMPO MOTORIO
Nel pannello settimanale di un sedentario non esiste tempo motorio; si passa, con minimi spostamenti fisici, da un luogo di sosta a un altro: letto, sedile-auto, sedia-ufficio, sedia-mensa/bar, sedia-ufficio, sedile-auto/treno, poltrona-casa, sedia-cena, divano-televisione, letto. È il famoso GCC Gluteos Compression Circuit: l’incubo compressivo per milioni di fondoschiena. Il tempo motorio deve essere reintrodotto nella vita del sedentario: nel centro fitness, a casa, all’aperto. L’operatore metabolico esce rafforzato da una relazione incentrata sulla crescita motoria. L’attività motoria proposta punta a un graduale svezzamento del soggetto che, dopo un periodo di lezioni più frequenti, tornerà periodicamente a imparare nuove opportunità di tempo motorio. L’obiettivo finale è di realizzare tutti i giorni almeno 20 minuti di tempo motorio sotto forma di “allenamento” e altrettanti di tempo motorio nella vita di relazione, ovvero come stile di vita. Lo strumento per raggiungere questo è un’anamnesi che, oltre ai fattori di rischio, cerchi di capire il contesto di vita del soggetto, ovvero quali siano i suoi spostamenti e dove sia possibile inserire del tempo motorio di relazione (esempio andare a piedi in un luogo), piuttosto che tempo motorio di allenamento (una qualsiasi attività fisica organizzata e monitorata in palestra o in casa).
APPROFONDIMENTI
“Si parla di prevenzione, ma si spende in medicazione”, FitMed online, luglio-agosto 2009 www.professionefitness.com
“Relation of ATP III ( Adult Treatment Panel to NCEP’s public health) approach (National Cholesterol Education Program)”, National Institute of Health - National heart, lung, and blood Institute. 2001 e riaggiornato nel 2004 Autore: A.A. - V.V.